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Nel 1864, quando fu bandito il programma di concorso per la costruzione di un teatro che risultasse immaginato prendendo a modello la grandiosità dei principali teatri di Parigi e Vienna, il municipio di Palermo, auspice il sindaco Marchese di Rudinì, si faceva interprete del vivo desiderio della popolazione di sostituire l'ormai angusta - e inadatta alle grandiose rappresentazioni sceniche della lirica - sala Bellini. La storia della sua costruzione però, sembra improntata su un "misto di vero e d'invenzione" , tanto da farla sembrare quasi una delle opere melodrammatiche che vi sarebbero state rappresentate. E ciò a cominciare dalla decisione di costruirlo in un'area nella quale però sorgevano tre chiese, tre monasteri e un oratorio e precisamente la Chiesa e il Monastero delle Stimmate di S. Francesco, la Chiesa e il Monastero delle Vergini Teatine dell'Immacolata Concezione a S. Giuliano, la Chiesa di S. Marta, la Chiesa di S. Agata di Scarruggi delle Mura. Tali smantellamenti avrebbero infatti provocato l'ira delle rappresentanze cattoliche alle quali, non piacendo che, per un opera dedicata al pubblico divertimento, si distruggessero le case di Dio e le dimore di tante Sue figlie lanciarono una sorta di maledizione sullo stesso teatro e sulla città di Palermo tramite la voce del quotidiano "La Sicilia Cattolica", che, nel giorno dell'inaugurazione, protestando "[...] in nome della religione, in nome della civiltà vera, in nome dei bisogni del paese, pregando Iddio misericordioso che risparmi alla città [...] i divini flagelli per tante accumulate profanazioni", contribuiva a fare diffondere l'idea che il teatro fosse nato sotto una cattiva stella. Leggenda che, insieme al presunto girovagare al suo interno del fantasma di una monaca seppellita in quel luogo e le cui ossa furono dissotterrate durante la costruzione, si accompagna all'enigma riguardante la scritta sul frontone che recita "L'arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparare l'avvenire", e della quale non si conobbe mai l'autore, nonostante che vi siano una serie di nomi a cui è attribuita fra cui il La Lumia e, addirittura, il Gioberti, almeno in riferimento alla prima frase. Ad aggiudicarsi il primo premio fu Giovan Battista Filippo Basile il quale, trascorsi undici anni prima che il Comune potesse deliberare affinché si iniziasse la costruzione, cominciò i lavori il 12 gennaio 1875 alla presenza del nuovo sindaco Emanuele Notarbartolo, non riuscendo peraltro a vederli ultimati giacché soltanto nel 1897 - sei anni dopo la sua morte e ventidue anni dopo la posizione della prima pietra - sotto la direzione dei lavori del figlio Ernesto, l'opera verrà inaugurata. Una serie di interventi di ristrutturazione, a cominciare da quelli eseguiti per migliorare lo spazio dell'orchestra, sembravano rendere il teatro un cantiere perenne fino al 1970 quando il prof. Unruh redigette un ultimo progetto di ristrutturazione. L'agibilità del teatro fu concessa infine fra gennaio e febbraio del 1974 ma soltanto per l'esecuzione di concerti che non impegnassero il palcoscenico. Il 29 gennaio 1974 venne eseguito il «Nabucco», sulle note del quale il teatro venne definitivamente chiuso, in attesa di una ristrutturazione definitiva. Opera architettonica legata più di ogni altra alla memoria della "Palermo felicissima", è anche uno dei monumenti a cui sono più affezionati i Palermitani, soprattutto a causa della sua fortissima capacità evocativa degli splendori della belle époque siciliana.

Nel 1864, quando fu bandito il programma di concorso per la costruzione di un teatro che risultasse immaginato prendendo a modello la grandiosità dei principali teatri di Parigi e Vienna, il municipio di Palermo, auspice il sindaco Marchese di Rudinì, si faceva interprete del vivo desiderio della popolazione di sostituire l'ormai angusta - e inadatta alle grandiose rappresentazioni sceniche della lirica - sala Bellini. La storia della sua costruzione però, sembra improntata su un "misto di vero e d'invenzione" , tanto da farla sembrare quasi una delle opere melodrammatiche che vi sarebbero state rappresentate.
E ciò a cominciare dalla decisione di costruirlo in un'area nella quale però sorgevano tre chiese, tre monasteri e un oratorio e precisamente la Chiesa e il Monastero delle Stimmate di S. Francesco, la Chiesa e il Monastero delle Vergini Teatine dell'Immacolata Concezione a S. Giuliano, la Chiesa di S. Marta, la Chiesa di S. Agata di Scarruggi delle Mura.
Tali smantellamenti avrebbero infatti provocato l'ira delle rappresentanze cattoliche alle quali, non piacendo che, per un opera dedicata al pubblico divertimento, si distruggessero le case di Dio e le dimore di tante Sue figlie lanciarono una sorta di maledizione sullo stesso teatro e sulla città di Palermo tramite la voce del quotidiano "La Sicilia Cattolica", che, nel giorno dell'inaugurazione, protestando "[...] in nome della religione, in nome della civiltà vera, in nome dei bisogni del paese, pregando Iddio misericordioso che risparmi alla città [...] i divini flagelli per tante accumulate profanazioni", contribuiva a fare diffondere l'idea che il teatro fosse nato sotto una cattiva stella. Leggenda che, insieme al presunto girovagare al suo interno del fantasma di una monaca seppellita in quel luogo e le cui ossa furono dissotterrate durante la costruzione, si accompagna all'enigma riguardante la scritta sul frontone che recita "L'arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparare l'avvenire", e della quale non si conobbe mai l'autore, nonostante che vi siano una serie di nomi a cui è attribuita fra cui il La Lumia e, addirittura, il Gioberti, almeno in riferimento alla prima frase.
Ad aggiudicarsi il primo premio fu Giovan Battista Filippo Basile il quale, trascorsi undici anni prima che il Comune potesse deliberare affinché si iniziasse la costruzione, cominciò i lavori il 12 gennaio 1875 alla presenza del nuovo sindaco Emanuele Notarbartolo, non riuscendo peraltro a vederli ultimati giacché soltanto nel 1897 - sei anni dopo la sua morte e ventidue anni dopo la posizione della prima pietra - sotto la direzione dei lavori del figlio Ernesto, l'opera verrà inaugurata.
Una serie di interventi di ristrutturazione, a cominciare da quelli eseguiti per migliorare lo spazio dell'orchestra, sembravano rendere il teatro un cantiere perenne fino al 1970 quando il prof. Unruh redigette un ultimo progetto di ristrutturazione. L'agibilità del teatro fu concessa infine fra gennaio e febbraio del 1974 ma soltanto per l'esecuzione di concerti che non impegnassero il palcoscenico. Il 29 gennaio 1974 venne eseguito il «Nabucco», sulle note del quale il teatro venne definitivamente chiuso, in attesa di una ristrutturazione definitiva.
Opera architettonica legata più di ogni altra alla memoria della "Palermo felicissima", è anche uno dei monumenti a cui sono più affezionati i Palermitani, soprattutto a causa della sua fortissima capacità evocativa degli splendori della belle époque siciliana.

Con i suoi 7730 mq di superficie, una sala di 450 mq e 3200 posti, il Teatro Massimo rappresenta uno dei più grandi e significativi teatri d'Europa. Situato in prossimità dei "quattro canti di campagna" e precisamente nell'odierna piazza Verdi, rappresenta, secondo alcuni studiosi, una "sperimentazione" anticipata dell'opera modernista che Ernesto Basile, legandosi coerentemente all'opera del padre, soprattutto nell'aspetto riguardante le funzioni di "sviluppo simbolico della struttura", volle portare in una città che appariva una città europea, esaltando così le fortune dell'Art Nouveau e le capacità professionali delle maestranze locali da lui dirette con particolare attenzione. Il teatro ha al suo interno uno spazio compatto misurato e al contempo possente. Questa forza scaturisce dalla mole della torre del palcoscenico che, quasi moderna colonna, svetta sulla platea raccordandosi al foyer e al vestibolo mediante spazi circolari. Sorto per soddisfare il "bisogno di melodramma" della borghesia palermitana del secolo scorso, più avvezza ad apprezzare il razionale gusto neoclassico che non il precedente barocco, ne rappresenta anche le esigenze di equilibrio ed esterno decoro. Ritenuto anche un esempio d'ingegnoso eclettismo, mostra un rilevante gioco di chiaroscuri, ottenuto grazie all'uso di calcarenite compatta. In un articolo del «Salonblatt», il giornale di Vienna, pubblicato nel 1880 era descritto come "[...] una colossale costruzione che, con suo colore caldo-dorato, s'innalzava grandiosamente al di sopra delle masse bianche delle case della città", simile, per la mole, alla "[...] colossale torre del Castel Sant'Angelo in Roma".
Ornato da opere dei più noti artisti del periodo, presenta a destra e a sinistra della scala principale, due gruppi bronzei, rispettivamente di Benedetto Civiletti e di Mario Rutelli raffiguranti l'una La Tragedia e l'altra La Lirica.
In un'aiuola, posta alla sinistra della scala, è posto un busto opera di Antonio Ugo raffigurante Giuseppe Verdi, realizzato su disegno di Ernesto Basile. Al centro del portico, un altro busto, raffigurante Vincenzo Bellini, anch'esso opera del Basile, datata 1911. Il vestibolo apre alla sala in cui, al piccolo ma riccamente decorato arco scenico, si contrappone la forma a ferro di cavallo con cinque file di palchi.
La volta della sala è stata dipinta dai pittori Rocco Lentini, Michele Cortegiani, Luigi Di Giovanni ed Ettore De Maria Bergler, mentre Francesco Padovano decorava il palco reale. Il sipario è opera di Giuseppe Sciuti e raffigura "Re Ruggero che s'avvia all'incoronazione". Ancora, affreschi di Giuseppe Enea e di Enrico Cavallaro sono presenti rispettivamente nella sala pompeiana e nel caffè.
Di particolare interesse appare il fatto che l'intera struttura fu pensata come una sorta di "centro polivalente" dell'epoca in cui, secondo alcuni "pensamenti" fra cui quello presente in un documento del Collegio degli Ingegneri e degli Architetti, insieme alle manifestazioni liriche nella sala si sarebbero dovuti svolgere concerti e feste da ballo, mentre nei corpi bassi disposti attorno, avrebbero dovuto disporsi il circolo dei nobili, una biblioteca, il caffè, il foyer.
Splendide le decorazioni interne ed esterne - che ripropongono motivi di fiori e frutta, e anche altri simboli di fertilità e ricchezza che riecheggiano i «paradisi» siculo-arabi. Anche la sala degli spettacoli, il foyer, il palco reale, il salone del Sovrano e la sala pompeiana evidenziano la presenza di motivi allegorici secondo un criterio di non più facile lettura.

La storia delle rappresentazioni tenute al teatro Massimo rende evidente l'importanza che questo teatro ha avuto non solo nella storia della città ma anche del panorama musicale internazionale, perché spesso ribalta di nomi che in seguito sarebbero divenuti famosi.
L'inaugurazione del teatro avvenne il 16 maggio 1897 con la rappresentazione dell'opera di Giuseppe Verdi "Falstaff", diretta dal maestro Leopoldo Mugnone e interpretata dal baritono Arturo Pessina e dal soprano Elisa Petri, nota per essere stata diretta anche da Arturo Toscanini.
Durante la prima stagione, all'inizio della sua folgorante carriera, fra gli interpreti fu Enrico Caruso, che svolse la parte di Enzo Grimaldo ne "La Gioconda" di Pontichielli.
Tra il 1906 e il 1926, gli anni di splendore del Liberty palermitano, i Florio fecero conoscere le opere di Richard Wagner e la Salomè di Strauss. Dopo il 1940, accanto a titoli di opere veriste e verdiane nel cartellone verranno inseriti i lavori di compositori siciliani, come il "Persefone" di Ferro e "La zolfara" di Mulé. Durante la gestione americana, nell'immediato dopoguerra, la Caniglia, Gigli, Stabile, saranno ospitati al teatro e Gino Bechi, a Palermo, acquisterà larga notorietà.
Nella stagione 1946-47, durante i festeggiamenti del cinquantenario dell'edificazione, Rossi, Capuana e Zecchi diressero le opere di Beethoven, fra cui la Nona sinfonia, mai eseguita prima a Palermo. Replicate le tre opere dell'anno d'inaugurazione, "Falstaff", "La Gioconda" e "La Bohéme", furono rappresentate le "Nozze di Figaro", di Mozart, e "L'amore dei tre Re" di Montemezzi che segnò l'inizio di un interesse verso la musica contemporanea. Mariano Stabile ebbe il ruolo di Falstaff, tanto perfetto nella sua parte da restare identificato con il personaggio verdiano per un lungo periodo, cosicché si diceva che «se la donna e mobile... Falstaff è Stabile».
L'orientamento verso la musica contemporanea fu segnato anche dalla scelta di opere quali "La resurrezione" di Alfano, "La monacella della fontana" di Mulé, "Fedra" di Pizzetti, "I quattro rusteghi" di Wolf-Ferrari, e "Re Ruggero" di Szimanowski nel 1949, anno in cui Maria Callas rappresentò Brunhilde in "Walkiria" di Wagner, mentre due anni più tardi sarà "Norma".
Tra il 1951 e il 1952 Giulietta Simionato verrà a rappresentare la "Preziosilla", così come Vinay sarà l'"Otello", Renata Tebaldi sarà "Margherita" nel "Mefistofele" di Boito e due grandi direttori stupiranno il pubblico palermitano: Klemperer e Scherchen.
Tra il 1953 e il 1957 invece torneranno ad essere rappresentate le opere dei classici, fra cui "I Capuleti e i Montecchi" di Bellini e "Il Turco in Italia" di Rossini, mentre, tra le novità, "Il cappello di paglia di Firenze" di Rota e "Pantea" di Lizzi. Nel '55 saranno "Parsifal" e la "Giovanna D'Arco" diretta da Rossellini a catalizzare l'attenzione del pubblico palermitano, mentre del 1957 si ricorda un'egregia interpretazione di "Otello" da parte di Mario Del Monaco.
E ancora negli anni si susseguirono opere quali "Il Pirata" di Bellini, o "Alceste" di Gluck, "Il Ratto del Serraglio" e il "Flauto Magico" di Mozart.
Negli anni sessanta, con l'esplosione del boom della musica contemporanea, l'Ente Lirico propose il "Pelléas et Melisande" di Debussy e il "Wozzeck" di Berg. In questi stessi anni il coreografo Millos insieme a Renato Guttuso e a Angelo Musco realizzò "Le sei danze per Demetra", mentre nel '64 sarà rappresentata un'opera con un libretto di Salvatore Quasimodo, "L'amore di Galatea" del compositore Lizzi. Sono questi anche gli anni in cui si ascoltano voci quali quelle di Stella, Simionato, Di Stefano, Del Monaco, Siepi e Raimondi insieme a quelle delle due soprano affermatesi poi nel panorama internazionale, Ilva Ligabue e Joan Sutherland.
Il '67 sarà l'anno in cui Angelo Musco dirigerà, dopo averla composta, "Il Gattopardo", con la regia di Luigi Squarzina, mentre nel '71 sarà la volta de "La sagra del signore della nave" tratta dall'omonimo dramma pirandelliano e diretta dal siciliano Lizzi.
L'ultima opera, rappresentata nel 1974, sarà il "Nabucco" ma solo in forma oratoriale. Da allora in poi, con infinita nostalgia e speranza di riacquisire gli spazi più adatti del Massimo, tutte le opere furono trasferite al teatro Politeama Garibaldi.
           


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